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Aspettando Godot: il capolavoro di Samuel Beckett nel Cubo visionario di Theodoros Terzopoulos

Aspettando Godot

Strada di campagna, con albero: su una pietra è seduto Estragone mentre cerca accanitamente di togliersi una scarpa. Entra Vladimiro: è contento di rivedere Estragone, perché lo credeva partito per sempre. Così si apre En attendant Godot, pietra miliare del teatro dell’assurdo, che Samuel Beckett, Premio Nobel per la letteratura nel 1969, scrisse tra l’ottobre 1948 e il gennaio 1949 (dopo le atomiche di Hiroshima e Nagasaki e gli orrori dell’Olocausto), e che andò in scena per la prima volta il 5 gennaio 1953 in lingua francese al Théâtre de Babylone di Parigi con la regia di Roger Blin.

Nel primo atto, due uomini (Estragone e Vladimiro) aspettano un certo Godot che aveva dato loro un appuntamento davanti a un albero, senza un orario preciso. I due non sanno chi sia Godot né quale sia il motivo per cui lo aspettano, ma sperano che Godot possa offrir loro una salvezza, un pasto, un giaciglio all’asciutto. Tra silenzi e brevi conversazioni in cui si esprime il vuoto delle loro esistenze («Non è il vuoto che manca»), due arrivi irrompono sulla scena: quello di Pozzo che si presenta come il proprietario di quelle terre e che tiene al guinzaglio il suo servitore, Lucky, al quale ordinerà anche di pensare (provocando un estenuante e colto monologo, che finirà in zuffa); e quello del Ragazzo, messaggero di Godot, che a sera compare per avvertire i due che Godot non arriverà quella sera ma l’indomani. Vladimiro ed Estragone decidono di andarsene («Andiamo») ma rimangono immobili («Non si muovono»).

Nel secondo atto, si rinnova l’attesa, con lo stesso bisogno di conversare (per non pensare, per non sentire). L’albero ha più foglie. Di nuovo passano Pozzo e Lucky, ma Pozzo è divenuto cieco e Lucky muto. Di nuovo giunge il Ragazzo ad avvertire che Godot non arriverà quella sera ma l’indomani. Vladimiro ed Estragone decidono di andarsene («Andiamo») ma rimangono immobili («Non si muovono»).

Fine della pièce.

Una tragicommedia in due atti «in cui non accade nulla, per due volte»: così la celebre definizione data da Vivian Mercier nel 1956 al capolavoro beckettiano.

In un dibattito televisivo del 1968, trascritto con il titolo Essere ottimisti è da criminali, lo scrittore ungherese Martin J. Esslin ricorda che la pièce aveva suscitato in Algeria entusiasmo perché i fellah si erano convinti che il tema principale fosse la sempre procrastinata distribuzione delle terre, mentre in Polonia nel 1957 aveva provocato tumulti perché i polacchi si erano convinti che quel Godot che non arriva rappresentasse la tanto agognata libertà politica. Meno convinto di tutti era il filosofo tedesco Theodor W. Adorno, che obietta a Esslin che i fellah e i polacchi avevano inteso male, ma che, d’altra parte, sono proprio i malintesi il mezzo di comunicazione dell’incomunicabile. Per lui Godot raffigura semplicemente «la cieca totalità in cui tutti siamo invischiati».

«La morte / si sconta / vivendo», aveva scritto Ungaretti trent’anni prima per esprimere il dolore senza voce di fronte agli orrori della Prima guerra mondiale. Ma a quell’umanità era concesso ancora di morire. L’umanità incarnata da Astragone e Vladimiro è invece un’umanità che appartiene al futuro. Forse già morta. «Dovevamo pensarci un milione di anni fa, negli anni Novanta», dice Vladimiro a Estragone all’inizio della pièce (nel testo riscritto da Beckett nel 1974 per la regia allo Shiller Theater di Berlino). Adorno lo dice chiaramente: nella concezione di Beckett, è la morte il fine verso cui gli uomini proiettano il desiderio, ma agli uomini non è più dato di morire: possono desiderare la morte, ma non realizzare il desiderio. Ma se la morte non fa paura, tanto da essere oggetto di desiderio, che cosa prende il posto della morte nelle paure dell’uomo?

Aspettando Beckett

Bari. Teatro Piccinni. 22-25 febbraio 2024. Per la stagione teatrale Altri Mondi va in scena Aspettando Godot nell’allestimento del regista greco Theodoros Terzopoulos (produzione ERT e Teatro di Napoli, in collaborazione con Attis Theatre Company; traduzione italiana di Carlo Ferrero). Appena entro in sala, m’accoglie un sottofondo sonoro di sirene d’allarme antiaereo. Sul palcoscenico il sipario è aperto: un bonsai quasi invisibile, piantato in un vaso, e, dietro, un grande cubo nero chiuso da una parete a quattro pannelli quadrati scorrevoli, tra di loro separati da una sottilissima fessura di luce che disegna l’immagine di una croce. Attorno a me, la borghesia pagante del Piccinni, incurante delle sirene antiaeree, continua a parlare dell’ultima barca acquistata e dei propri figli mandati a studiare nelle migliori università del pianeta. Ma come scrisse Beckett al regista Blin: «niente è più grottesco del tragico».

L’aumento improvviso del volume dell’allarme antiaereo è il segnale che lo spettacolo sta per iniziare.

I due pannelli superiori della parete cominciano a scorrere in alto in modo da svelare pian piano una piccola porzione all’interno del cubo: un ripiano lungo l’asse orizzontale della croce luminosa su cui si trovano sdraiati supini Vladimiro ed Estragone, con le calotte delle teste che si toccano.

Ph. Johanna Weber

In quella posizione resteranno quasi per tutti i novanta minuti dello spettacolo, animandosi solo all’arrivo della coppia Pozzo-Lucky e del Ragazzo. Arrivi che sono vere e proprie visioni. Sofferente quella del Ragazzo, annunciato dal calare di una grande croce bianca: nella sua voce e nel suo corpo si sentono plasticamente l’afflizione di un peso insostenibile e la fatica di una missione senza memoria (annunciare, ogni giorno, una venuta che non verrà). Impressionante quella di Lucky, che, sulle estatiche note del Miserere mei di Allegri, piano piano affiora da una botola come se provenisse da un dipinto del futuro e vomita sangue dalla bocca: un incubo, un sogno muto, ma duro, definito, incarnazione di una dimensione senza libertà, senza futuro, senza tempo, senza lotta.

Ph. Johanna Weber

Mi rendo conto, forse deluso, che in questa profondità pittorica e quasi mistica non c’è spazio per le tradizionali letture della coppia Pozzo-Lucky in termini di contraddizioni di classe (padrone-operaio). Ma è solo un attimo: l’intensità del testo scenico rende vano ogni sforzo di protesta.

Lo spettacolo termina con dei fogli strappati e le parole «Andiamo» ripetute da due immobili Vladimiro ed Estragone, mentre una collana di libri insanguinati cala dall’alto e il cubo si chiude divorando i corpi dei due amici tra le note di un malinconico bandoneon.

Restano gli applausi per la fatica dei cinque attori e per la grandissima forza interpretativa ed emozionale sprigionata: mirabili Stefano Randisi ed Enzo Vetrano (nelle parti rispettivamente di Vladimiro ed Estragone) con la loro recitazione ispida, scabra, quasi frammentata; magistrali Paolo Musio (Pozzo), Giulio Germano Cervi (Lucky) e Rocco Ancarola (Ragazzo) a cui sono state affidate vere e proprie partiture fisiche, impegnative ed estenuanti.

Meno facile è il giudizio su Terzopoulos che ha curato anche scene, luci e costumi, e ha messo in scena un Aspettando Godot fuori dagli schemi.

L’anarchia del maestro greco è palpabile innanzitutto nel mutamento radicale della scena, che perde, tuttavia, quel sottile gioco di rimandi semiotici legati alla strada e all’albero; ma anche nella scelta d’introdurre oggetti estranei al testo (coltelli, libri insanguinati, l’elmetto da guerra con cui Pozzo incorona Lucky) ed eliminare tutti quegli oggetti di scena invece presenti nel testo e connaturati all’azione e caratterizzazione stesse dei personaggi (la pietra di Estragone, la pipa di Pozzo, la corda che lega Lucky a Pozzo, la valigia, il seggiolino, il paniere e il cappotto del padrone trascinati da Lucky, la carota che Vladimiro offre a Estragone, il pane, il vino e il pollo che Pozzo trangugia, gli ossi che Pozzo getta via e che Estragone fissa avidamente).  Con il risultato che molte parti di dialoghi riguardanti tali oggetti sono tagliate e tagliata è anche l’azione scenica collegata a molte battute (così da rendere, talvolta, poco comprensibili le battute stesse). Del tutto espunti anche gli elementi clowneschi o circensi (la scarpa di Estragone, la frusta di Pozzo), quelli provenienti dal cinema muto (le bombette), i turpiloqui e tutte le gags e azioni sceniche evocanti l’immaginario del Varietà o di altri generi spettacolari “bassi” (presenti, invece, nel testo drammaturgico in funzione oppositiva alla cultura “alta” del teatro borghese). Il registro tragico è stato così mantenuto, ma è stato impedito al contrappunto del comico e del grottesco di risuonare nell’armonia dell’insieme.

Più che Godot, insomma: aspettando… Beckett.

C’è, però, un’altezza nella quale Terzopoulos si lascia perdonare tutte le deviazioni da Beckett. Nel testo drammaturgico Vladimiro ed Estragone evitano ogni contatto anche se si cercano. Al compagno che si avvicina, Estragone dice «Non mi toccare!», ma aggiunge «Resta con me!». E a Vladimiro che protesta («Forse che ti ho mai lasciato?»), lui risponde: «Mi hai lasciato andar via».

I due corpi messi in scena da Terzopoulos sono, invece, quasi avvinti tra di loro lungo l’asse longitudinale della croce, in un ritratto toccante, quasi struggente nell’assenza di salvezza. È precisamente a quest’altezza che Terzopoulos riesce a rispondere alla domanda che avevamo lasciato in sospeso: se la morte non fa paura, che cosa prende il posto della morte nelle paure dell’uomo?

La sua risposta è: la solitudine.

Che è anche la risposta di Beckett: quando i due compagni esprimono il desiderio di impiccarsi all’albero, Estragone invita Vladimiro (che, essendo più pesante, potrebbe rompere il ramo) a impiccarsi per primo, perché solo così avranno la certezza che l’albero li impicchi entrambi senza lasciare in vita, da solo, uno dei due.

Non la morte, dunque, non il mancato arrivo di Godot, è l’oggetto della paura di Estragone e Vladimiro, ma la solitudine. Che Terzopoulos sceglie di raccontare attraverso il suo contrario: il rifiuto della stessa, il bisogno dell’altro, il segno della tenerezza e dell’amicizia che pervade tutto lo spettacolo, e che lascia, al posto di un albero, un seme di speranza.

Tutto questo per dire che uno spettacolo come quello di Terzopoulos o lo respingi con tutte le forze o lo ami dolcemente: non c’è altra via. Io, personalmente, l’ho respinto con tutte le forze dopo averlo amato dolcemente. Ma, come ogni amore perduto, esso ancora oggi – soprattutto per la sua rivoluzionaria tenerezza – mi rimane dentro.

PROGETTI

Dettagli

  • DATA INIZIO: Sempre in corso
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  • DATA INIZIO: 2016
  • DATA FINE: ancora in corso
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  • DATA INIZIO: SETTEMBRE 2023
  • DATA FINE: MAGGIO 2024
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  • DATA INIZIO: ottobre 2022
  • DATA FINE: maggio 2023
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