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23/05/2023 di Mariantonia Capriglione

HERES: NEL NOME DEL FIGLIO

Due batteristi duettano a suon di percussioni, sono su un praticabile posizionato nell’angolo posteriore del palco. Un uomo, sembra un puntino che galleggia sul tappeto danza nero, muove il suo corpo a ritmo di musica, inizia a correre, sparisce dietro i batteristi e con una forza sovraumana sposta il praticabile facendolo roteare nell’intero spazio scenico. La rabbia è tangibile. Quanta forza ci vuole per scacciare la figura ingombrante di un padre?

In scena il 28 aprile, per la prima volta in Puglia, Heres: nel nome del figlio spettacolo con cui Ezio Schiavulli ha vinto il Premio Danza&Danza 2022 nella categoria autore/interprete; al Teatro Kismet per DAB danza a Bari, la proposta di danza contemporanea del Comune di Bari e Teatro Pubblico Pugliese.

Buio in sala. Il vocio si affievolisce fino a sparire. Silenzio. Un ritmo violento, incalzante, rompe l’oscurità, poi una luce bassa, a filo palco, illumina il danzatore steso supino sotto il praticabile. È lui a suonare contro il legno che lo imprigiona. Ancora buio. Poi è la volta delle batterie a fronteggiarsi prima nel buio e poi nella luce. Solo dopo i fari si accendono nuovamente per mostrarci l’uomo, ancora imprigionato sotto la struttura, che si muove, lentamente, nel poco spazio a lui dedicato; sembra un serpente che si anima al suono di un flauto, solo che la melodia che si sente non è dolce ma ritmata, feroce, ancestrale come i movimenti dell’uomo che sembra infante, larva o bestia.

ph. Patrik Lambin

Ezio Schiavulli, fondatore e direttore artistico del Network Internazionale Danza Puglia, dirige un progetto culturale di creazione, diffusione e promozione dell’arte coreografica, coordinando la compagnia professionale di danza contemporanea Ez3 nella città di Strasburgo in Francia sostenuta dal Ministero della Cultura francese.

Con Heres: nel nome del figlio, coproduzione tra Associazione Culturale Ri.E.S.Co. (Bari) e Association Expresso Forma (Strasburgo), Schiavulli vuole indagare il rapporto padre-figlio attraversando anche i complessi, opposti tra loro, di Edipo e Telemaco.

Le due batterie, come un mostro a due teste, rappresentano il padre. Sono animate magistralmente da Dario De Filippo e Donato Manco che, durante l’assolo, non si limitano a suonare: parlano, urlano, si muovono e insegnano a suonare. Un lavoro basato sull’ascolto. Ci sono parti in cui suono, luce e movimento sono dettati dall’improvvisazione.

Repulsione e attrazione sono le due forze contrastanti che muovono il performer. Anche il suo corpo è in opposizione: quando è attratto, dal suono e dagli strumenti, gli si avvicina ma lo sguardo è diretto altrove; quando a vincere è la repulsione il corpo fugge via, mette distanza, anche se lo sguardo è inchiodato su quei piatti dorati che brillano quando colpiti dalle bacchette.

Il movimento di Schiavulli è cangiante, passa dal piccolo al grande, lavora su tutti i livelli e riempie lo spazio in tutta la sua interezza. La sua energia rompe la quarta parete e arriva fin sugli spalti.

La sua danza è energica, sofferta, sensuale, animalesca. È sinuoso, sembra trasformarsi in una figura mitologica bestiale, un minotauro che ha per corna le bacchette. Danza anche quando le batterie tacciono. Eppure, la musica sembra esserci, è come se si percepissero i battiti del suo cuore; è il suo corpo che, nel silenzio più assoluto, suona.

Impara a suonare la batteria. Urla. Recita. “La rabbia contro i padri” frase che si ripete più volte, prima a voce, poi scandita dal ritmo della batteria, diventa un mantra che, inevitabilmente, si insinua nella testa dello spettatore.

ph. Patrik Lambin

Siamo tutti figli e ognuno di noi si è trovato nella condizione di aver bisogno di essere accettato e, nel frattempo, di volere un distacco che definisse il nostro io. Ci siamo trovati tutti ad urlare contro un padre per affermarci, urlare fino a perdere il fiato, urlare fino a sentirci svuotati.

Danza con forza, Schiavulli, avanza spavaldo, affronta il suono incessante delle due batterie che dicono la loro, che si impongono e lui reagisce; a mani nude, con impeto, batte sui piatti e, immediatamente, finisce steso a terra. Proprio come quando affrontando un genitore superiamo quel limite che, una volta varcato, uccide un po’ anche una parte di noi stessi. In questo è leggibile l’attraversamento del mito edipico.

Il padre. Una figura imponente che, forse anche perché troppo idealizzata, ci porta a seguire le sue orme. Il figlio viene quasi risucchiato nell’oscurità quando, lentamente, sparisce sotto il praticabile come se qualcuno lo stesse tirando dai piedi.

Ricompare poco dopo, imbrigliato con una corda alla pedana, la sposta con movimenti lenti, dosa la forza, si trascina. Il padre può diventare un fardello importante da portare con se. Un peso che, però, il danzatore  stringe tra le mani, tiene vicino al cuore, culla tra le braccia; come a voler dire “cosa farebbe mio padre in questo momento?”. Ecco che compare Telemaco in attesa di un padre che sia fiero del suo operato.

Bisogna demolire, pezzo per pezzo, l’ingombro prima di amarlo. Prima di riconoscersi, così simile eppure così diverso. Prima di accettare la propria individualità.

Ecco che le batterie vengono fatte a pezzi, scomposte vengono appese, sembra stiano galleggiando nell’aria. L’ambiente si fa rarefatto, l’immagine si fa leggera, delicata. Mentre pian piano tutto si fa buio si sentono, di tanto in tanto, suoni delicati che ricordano un carillon. Schiavulli è al centro della scena, sulla pedana. Diventa al contempo bambino, uomo e padre; perde le sue sovrastrutture e si spoglia delle sue paure oltre che dei suoi vestiti.

Lo spettacolo, coinvolgente e toccante, riceve un importante consenso del pubblico meritandosi una standig ovation. Sia gli artisti che gli spettatori hanno potuto, così, celebrare la giornata mondiale della danza che, il caso ha voluto, si è celebrata proprio il giorno successivo.

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