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22/05/2023 di Emanuela Bianco

IL COMPLEANNO DI HAROLD PINTER: IN SCENA L’IDENTITÀ SFOCATA DELLA MODERNITÀ

Il compleanno è la pièce scritta dal drammaturgo britannico Harold Pinter nel 1957,
messa in scena in questa stagione al teatro Piccinni dal regista teatrale tedesco Peter
Stein.
La scenografia, sobria, ricostruisce una stanza da pranzo con al centro il tavolo, cuore
intimo di ogni abitazione. Lo spettatore si ritrova in un’atmosfera di apparente
normalità, ancor più quando compaiono i primi personaggi: Petey e Meg, marito che
legge il giornale e moglie affaccendata in cucina come in ogni casa al mattino. La
normalità è sottolineata dall’uso dello small-talk, un linguaggio quotidiano e
informale. È l’ingresso di Stanley, l’unico ospite della casa, che pare sia anche
pensione, a incrinare il piano di normalità. Ha un’età indefinibile, dice di essere un
pianista. Il latte che il marito beveva è ora rancido, il the stantio e freddo, i dialoghi si
allontanano sempre più dalla conversazione quotidiana.
Riuscito l’effetto per cui con l’ingresso degli altri personaggi e soprattutto dei due
che cercano Stanley, lo spettatore si ritrova sempre più spiazzato: quello che
sembrava usuale non lo è più e non esistono più certezze. L’identità stessa di Stanley
è incerta e questa ambiguità viene simbolicamente sottolineata dalla sua miopia, ogni
volta che si toglie o gli vengono tolti gli occhiali sembra più fragile e alienato.
Tutti si affannano a preparare il suo compleanno: ma lo è davvero? Dialoghi e silenzi
diventano sempre più incalzanti fino a toccare l’apice alla festa dove ancora una volta
Stanley viene privato degli occhiali e bendato per giocare a “mosca cieca”, si spegne
la luce ed è come se la sua identità si disgregasse tanto da renderlo folle, “fuori di
sé”: tenta di strangolare Meg e forse di violentare la bella vicina Lulù.
Il secondo atto si riapre come il primo con la colazione, alcune battute sono le stesse
ma è subito evidente che non è più la stessa scena e lo spettatore non è più lo stesso:
sulla normalità si è ormai aperta una crepa insanabile.
Stanley ritorna incapace di parlare e di vedere perché i suoi occhiali si sono rotti. Sul
finale aumentano inquietudine, senso di minaccia e domande che restano senza
risposta ma lo spettatore si ritrova vicinissimo a Stanley: sente la sua solitudine, il
non riuscire a mettere a fuoco nemmeno sé stesso, il suo bisogno di fuga dall’identità
imposta da una società cieca ma autoritaria che torna e ti riafferra, ti rimette giacca e
cravatta come fanno i due uomini con Stanley: lo risucchiano nel mondo di tutti senza
più parole ma con la vista definitivamente annebbiata.

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