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30/04/2024 di Annagiulia Costantino

FAUN*: UN CURIOSO ESCAMOTAGE PER INDAGARE LA NATURA UMANA

“Forse amai un sogno?…

Il nostro sangue, innamorato

Di chi lo afferra, cola per l’eterno

Sciame del desiderio”.

Manifesto della letteratura francese simbolista, il poema Il pomeriggio del Fauno del 1876 di Stephane Mallarmé ha ispirato numerosi artisti del Novecento, lasciandoci ad oggi testimonianze visive, iconografiche e musicali della sua influenza.  

Ben dopo dieci anni vide la luce il celebre poema sinfonico Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy e, nel 1912 Vaclav Nižinskij, realizzò una trasposizione coreografica del poema, diventata una pietra miliare nella storia dei Ballet Russes.

Prima dello scandalo della Sagra della Primavera, il balletto di Nižinskij non tardò nel suscitare emozioni negative nel grande pubblico che, dinanzi a una esplicita libertà di temi e passi reagì con grande indignazione, rigettandolo totalmente come prodotto artistico non conforme ai rigidi schematismi del balletto ottocentesco.

Andato in scena il 19 Aprile al Teatro Kismet, nella rassegna DAB – “Danza a Bari” in collaborazione col Teatro pubblico pugliese; Mauro De Candia, coreografo di fama internazionale originario di Barletta, ha rivisitato la storia del fauno, in un’ottica estremamente moderna.  Occorre porre attenzione al titolo di quest’opera: “Faun*”, il cui l’asterisco, volutamente inserito, ha un significato estremamente profondo.

Ph: Andrea Macchia

Scenografia pressoché assente, ergono sul palco solo delle piccole e sottili composizioni, simili a delle stalagmiti, che rimandano inevitabilmente a uno scenario naturale sospeso in una dimensione atemporale.

In scena 4 danzatori del Balletto di Torino agiatamente distesi sul palco: Nadja Guesewell, Luca Tomasoni, Noa Van Tichel, Luis Agorreta.  Gli unici elementi di riferimento e smarrimento per il pubblico sono i corpi.

Il coreografo, discostatosi completamente dalla coreografia originaria di Nižinskij, ha deciso di presentare una non-storia. Non è identificabile un filo narrativo che percorre l’intero flow coreografico, ma, solo un imput di partenza: il fauno, essere per metà uomo e per metà animale, animato da un forte desiderio e da una forte pulsione sessuale.

Ma chi è il fauno sulla scena? Tutti i danzatori indossano il medesimo costume, una tuta estremamente attillata simile alle squame dei serpenti.

Movimenti estremamente lenti e controllati, quasi in slow motion. I danzatori, a canone, articolando di volta in volta i movimenti come con un puzzle, si alzano dal suolo.

Si muovono accompagnati dalle musiche di Alva Noto e Ryuichi Sakamoto, caratterizzate da un mix di suoni elettronici e acustici che rendono l’atmosfera ancor più evanescente.

Ph: Andrea Macchia

Da un assetto coreografico multifocale si passa a un agglomerato complesso di corpi.

Si avvicinano, si toccano, attraversano l’uno il corpo dell’altro.  

Un contatto intenso che porta ognuno a scoprirsi, negli aspetti più ignoti della propria identità.

Un processo di riconoscimento ed accettazione di sé stessi e delle diversità proprie e degli altri che, culmina in una libera fusione dei corpi, accompagnata da un crescendo di fluidità e dinamicità.

La coreografia di Nijinski, molto più pantomimica e teatrale, era caratterizzata da movimenti atipici per l’epoca ma, il contatto fisico tra i danzatori era estremamente limitato, se non completamente assente.  

In questo lavoro, invece, viene rivendicata prepotentemente la corporeità dei danzatori che, attraverso le loro fisicità riescono a esprimere le diverse metamorfosi del fauno, che incarnano anche, quelle dell’uomo.

Quanto spesso l’uomo scopre aspetti della propria personalità a lui ignoti?

Così, il fauno diventa allegoria dell’uomo moderno, privo di punti di riferimento e, in continuo conflitto con sé stesso e con le sue diverse possibili identità. L’uomo, non padrone di sé stesso, lasciandosi trasportare da una irrazionalità bestiale, talora, insegue desideri della sua fantasia, di cui egli stesso non sempre è pienamente consapevole.

Uno spettacolo che rivedrei: sfidante, difficile da decodificare che, invita il pubblico a interrogarsi su quanto ancora oggi possano parlarci le opere del passato e, soprattutto, su come la danza, i corpi, possano diventare veicoli di significati profondi.

60 min di puro movimento, non di inutili virtuosismi, anche di momenti coreografati senza musica, il cui unico sottofondo è il respiro affannoso dei danzatori.

Un’ora di una notevole performance fatta dinanzi a un esiguo pubblico di nemmeno 30 persone.

Quando sarà pronto il pubblico ad accogliere una concezione di danza non solo accomodante ma anche estraniante?

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