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30/04/2024 di Elena Capone

GRAND JETÉ UN SALTO GIÀ VISTO

Il teatro Piccinni di Bari è gremito quando Silvia Gribaudi, in collaborazione con la MM Contemporary Dance Company di Michele Merola, va in scena con lo spettacolo intitolato Grand Jeté.
Il diffuso vociare del pubblico in platea viene interrotto quando Gemma di Tullio, responsabile della programmazione danza del Teatro Pubblico Pugliese, e Carmelo A. Zapparrata, giornalista e critico di danza, presentano lo spettacolo. Il critico apre il suo discorso con un breve excursus sulle origini del balletto classico, scaltro appiglio per introdurre la rappresentazione, partendo proprio dal suo titolo, Grand Jeté, che altro non è che il nome di un passo di danza, forse tra i più virtuosi del balletto accademico. Nel frattempo Silvia, insieme ai dieci danzatori e danzatrici della compagnia, sono già in scena alle prese con un riscaldamento, ma di loro il pubblico riesce a vedere solo l’ombra dietro il fondale bianco.

Due realtà da tempo affermate nel mondo della danza contemporanea quelle di Silvia Gribaudi e della MM Contemporary Dance Company, insieme per la prima volta nella coproduzione dello spettacolo, andato in scena a Bari il 13 Aprile 2024 (stagione teatrale Altri Mondi 2023/24, organizzata dal Teatro Pubblico Pugliese).

Silvia da diversi anni è attiva nel settore delle arti performative; nutre la sua ricerca attraverso lo scambio e il dialogo con artisti, artiste e comunità sia italiane che internazionali, da cui poi prendono forma i suoi spettacoli, sempre intrisi di ironia e comicità.
Con A corpo libero nel 2009 vince il premio Giovane Danza D’Autore; nel 2017 finalista premio UBU e premio Rete Critica con R.osa; premio DANZA&DANZA 2019 come miglior produzione italiana con Graces e premio Hystrio Corpo a Corpo 2021.
La compagnia, fondata nel 1999 da Michele Merola, vanta anch’essa prestigiosi premi e una lunga serie di produzioni presentate in Italia e all’estero; nel 2017 vince il premio Europaindanza 2017 per lo spettacolo Bolero come migliore coreografia; nel 2022 premio Danza&Danza per la migliore produzione italiana con lo spettacolo Ballade (coreografia di Mauro Bigonzetti, Enrico Morelli).

L’intero ensemble si palesa al pubblico, schierato in riga; nessuna posa o accenno di movimento, si limita al contatto visivo in quei primi attimi di silenzio, in attesa che ora sia la platea a rivelasi. E così è stato: l’applauso del pubblico rompe il silenzio e forse anche l’imbarazzo.
Segue il conteggio in ottave che fa d’attacco a una sequenza di passi attinti dal vocabolario di movimento del balletto classico, talvolta accennati, altre ben marcati, in sincro ed esibiti in brevi assoli. Come in una lezione di danza i passi vengono prima chiamati per nome e poi eseguiti, pliè, jeté, tour en l’air, grand jeté sono alcuni dei più conosciuti; a prima vista sono forme, linee e geometrie di corpi, ma dietro la loro manifestazione estetica si cela il messaggio, la metafora che Silvia vuole far passare: una riflessione sul concetto del “lancio” inteso come il “lasciar andare”, non solo parti del corpo durante l’esecuzione di un movimento danzato, ma anche le esperienze di vita, quelle che ci tengono legati al passato o proiettati al futuro.
L’invito viene esteso al pubblico che si ritrova a sperimentare, anche solo con il movimento delle braccia, la sensazione fisica del “lasciar andare”, del gettare via qualcosa; la partecipazione attiva viene stimolata nello spettatore, cosa che negli spettacoli di Silvia non può proprio mancare.
La danza è comunicazione e si regge proprio sul continuo scambio di sguardi e di energie tra spettatore e performer: una relazione difficile da creare quando manca la parola; eppure lei ci riesce combinando elementi diversi e talvolta contrapposti fra loro, in una miscela di suoni, azioni fisiche e scelte drammaturgiche, che oscillano costantemente tra due poli opposti: semplicità e complessità; immediatezza visiva e astrattismo; verità e finzione.

La dicotomia emerge su diversi livelli, come nella contrapposizione delle fisicità in scena: da un lato l’ensemble di danzatori dai corpi longilinei e atletici, dall’altro Silvia, dalle forme rotonde e piene, che non copre ma svela, per dar forza al suo messaggio di bellezza e verità oltre i canoni socialmente prestabiliti (soprattutto nel balletto), con una buona dose di autoironia.
A un certo punto i corpi, dopo un progressivo svelamento, restano semi scoperti; in quel momento l’inatteso gioco delle forme messe a nudo e a confronto, restituisce un’immagine forte ma anche divertente.
Stesso discorso vale per le qualità di movimento, dove passi tecnici e virtuosi si mescolano a movimenti più istintivi e meno codificati, accostamento frequente nella danza contemporanea; ovviamente la scelta sonora riflette questo dualismo: la voce a più riprese fa da tappeto sonoro ai movimenti, alternata a stridenti suoni elettronici, fino all’inattesa partecipazione del pubblico nell’intonazione delle note dei più celebri repertori musicali classici (a detta della coreografa sui suoi canali social, è la prima volta che questo accade).
La danza, per sua stessa natura, tende a creare una distanza dallo spettatore, che sembra essere destinato al ruolo di “voyeur”, osservatore muto di una bellezza irraggiungibile; in Grand Jeté inconsapevolmente si ritrova a parteciparvi, quasi diventasse le braccia o le gambe di un unico grande corpo di ballo.
Di fatto la formula è vincente: gli applausi concitati, durante e a fine spettacolo, ne sono la prova.

È evidente l’impronta della coreografa in Grand Jeté, come in tutte le sue precedenti produzioni. Da un lato non si può non riconoscerle la capacità artistica di essere riuscita a trovare, costruire e affermare un linguaggio e uno stile assolutamente unici e personali, traguardo difficile da realizzare; ma dall’altro, spettacolo dopo spettacolo, visione dopo visione, ho realizzato quanto questi mi sorprendessero sempre meno. Da spettatrice, ammiratrice e in questo caso da critica, sento di lasciare aperta questa mia riflessione: ci si può affezionare agli artisti e al loro modo di creare, ma posso impedire al mio sguardo di desiderare qualcosa di nuovo?

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