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13/05/2024 di admin

QUANTO È DIFFICILE DIVENTARE ATTORI?

INTERVISTA A  LUNETTA SAVINO A CURA DEI RAGAZZI DEL DAMS 

Partiamo dal suo ultimo spettacolo. Lo scorso febbraio ha debuttato come protagonista nel nuovo lavoro con la regia di Marcello Cotugno: La madre, opera di Florian Zeller. Com’è interpretare questo ruolo? Èsoddisfatta del risultato finale? 

“Direi molto soddisfatta. È stata una scommessa vinta, non era facile. È un testo particolare che ho subito amato. Lo lessi per la prima volta anni fa quando un aiuto regista mi girò la traduzione dalla lingua originale. Ho deciso io di metterlo in scena. Stavo solo aspettando il regista giusto. Tutto è raccontato dal punto di vista di una madre: una donna che soffre la sua condizione di isolamento, solitudine e abbandono dal marito e dal figlio maschio. 

Nel testo è presente anche una figlia femmina vista quasi come una presenza antagonista. Tutti i personaggi femminili sono interpretati – sotto richiesta dell’autore – da un’unica attrice, qui èChiarastella Sorrentino: è come se la madre vedesse in lei tutte figure che insidiano il suo amore materno. 

A livello interpretativo è un personaggio forte e difficile perché passa da momenti di Black comedy a momenti drammatici. 

Alla fine ho optato quasi per una recitazione borghese, convenzionale e distaccata. E io interpreto quelle scene alleggerendo molto il carico emotivo. Sono gli spettatori che devono commuoversi ed emozionarsi. Non l’attore.” 

Preferisce interpretare personaggi di teatro o di cinema e qual è la differenza? 

“La differenza è la tecnica. Sia con il cinema, sia con il teatro c’è un lavoro di costruzione del personaggio e sul testo. Ma i mezzi sono completamente diversi: nel cinema hai la videocamera puntata capace di cogliere tutte le micro-espressioni del volto. La difficoltà però sta nel non strafare.  

A teatro il corpo dell’attore fa da protagonista ed è più difficile comunicare avendo un pubblico distante. Anche l’uso della voce è fondamentale. Ma sono approcci che si imparano con il tempo e soprattutto con l’esperienza.” 

Come la preparazione del DAMS ha condizionato o aiutato il mestiere dell’attore e perché ha scelto di fare l’attrice?  

“Il mio percorso in università è stato molto altalenante. Sono partita da Bari convinta di voler fare l’attrice: l’obiettivo era Roma. Però mia madre, insegnante di Letteratura moderna all’università, mi convinse a frequentare un corso di laurea. Nel 1976 provai per la prima volta l’Accademia di Arte drammatica a Roma e non andò a buon fine così decisi di iscrivermi a Lettere moderne nella capitale. L’anno dopo mi trasferii a Bologna alla neo-facoltà DAMS. Nonostante ciò, davo gli esami quando potevo. Ammetto che la laurea, però, mi ha arricchito molto. In seguito mi sono diplomata alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna.” 

Perché proprio il teatro? Quanto è semplice intraprendere questa strada? 

“È difficilissimo. Specie se, come me, nasci al Sud: partire da una realtà dove esiste solo il teatro dialettaleè complicato. Ma la passione è nata da spettatrice. Ho visto tantissimi spettacoli. Poi ho capito che volevo stare anche dall’altra parte.  

Con il tempo ho fatto anche altro però, come la radio e il cinema. La popolarità della televisione mi ha permesso di tornare a teatro come protagonista. Prima dellaMadre ho fatto sempre e solo piccoli ruoli. Ma io sostengo che serve riconoscere le occasioni: a me è arrivata dalla televisione. Interpretare Cettina in Un medico in famiglia, attraverso quelle scene di commedia, era come fare teatro in tv. Una sorta di allenamento.  

È sbagliato precludersi qualcosa. Bisogna sempre sperimentare. Non a caso penso che i registi più bravi siano  attori. Come Binasco, per esempio, o lo stesso Toni Servillo. E anch’io amo variare nei ruoli!” 

Quanto ha influito la sua provenienza da Bari nell’interpretazione di certi personaggi? Ci sono personaggi che ha amato più degli altri? 

“Il mio essere pugliese conta ma, nonostante questo, l’attore su richiesta deve anche saper essere neutro. Io ho studiato, e in seguito insegnato, dizione che è una disciplina fondamentale per qualunque attore.  

Io, personalmente, mi concentro molto sul dialetto e sulla voce di qualsiasi personaggio che interpreto. E comunque no, non ho mai odiato nessun personaggio. Ne ho amati tanti invece. Sicuramente posso affermare di avere un debole per i ruoli tragicomici.” 

Che consiglio darebbe oggi a chi vuole intraprendere questo tipo di percorso? 

“Bisogna andare via da qui e soprattutto farsi coraggio. È un lavoro difficilissimo: non possono farlo in tanti. Men che meno pensare che con la laurea in DAMS si diventi attori o registi. Per quello ci sono le accademie (come Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova).  

Non fidatevi di tutte quelle scuole gestite da persone incompetenti: sono solo fabbriche di illusioni. 

Per gli altri, il teatro può rimanere una passione. È importante però credere che per questo lavoro serva talento, dedizione, studio, sacro fuoco, impegno e anche la fortuna di incontrare buoni compagni di viaggio e maestri.” 

Com’è cambiata la considerazione dell’attore da quando ha iniziato e come è mutato questo mestiere nel tempo? 

“Ricordo ancora quando mio padre mi vide leggere Il lavoro dell’attore su se stesso di Stanislavskij. Mi domandò se fosse un vero mestiere. Gli dissi di sì. Non considerare il mestiere dell’attore come un lavoro vero e proprio è un cliché che esiste da sempre.  

Sta di fatto che la figura dell’attore è cambiata nel tempo. Io ho iniziato guardando ogni spettacolo di Glauco Mauri direttamente da dietro le quinte. Ma è un teatro che non esiste più. In Italia si è sviluppato molto sia il teatro di regia sia quello capocomicale, arrivato da Eduardo.  

Piuttosto ho notato – specie quando vado all’estero – che in Italia non esistano realtà giovanili ed è un peccato.” 

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