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06/12/2023 di Elena Capone

SOGNO O SON DESTA?

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”. (William Shakespeare – La tempesta)


Sogno o son desta? La domanda è sorta spontanea dopo essermi imbattuta nello spettacolo firmato da Alessandro Serra “La tempesta” (in scena dal 23 al 26 Novembre al Teatro Piccinni di Bari – rassegna Altri Mondi organizzata dal Teatro Pubblico Pugliese): ultimo capolavoro shakespeariano composto nel 1610, nella fase dei romances della sua produzione teatrale.


Alessandro Serra, fondatore della compagnia Teatropersona (1999) è regista, autore, scenografo, light designer; oltre ad aver vinto numerosi premi e riconoscimenti (premio Hystrio alla regìa, gran Pryx Golden Laurel Wreath Award come miglior regista e il premio Maschere del Teatro Italiano come miglior scenografo) gode di un background unico e peculiare: dagli studi di antropologia alla passione per il cinema e la fotografia; scopre il teatro di Leo De Berardinis e intraprende un percorso di formazione come attore studiando con Francis Pardeilhan, con cui si avvicina al teatro fisico. Tre maestri in particolare hanno influenzato profondamente la sua ricerca artistica: Grotowski, Kantor e Peter Brook. Nel 2017 vince il Premio Ubu con lo spettacolo dedicato al padre “MACBETTU”.


Il teatro di Shakespeare nelle mani del regista, che traduce e adatta il testo originale, inaspettatamente si fa inconscio materico, sogno tattile, ora perturbante ora accogliente, in un mondo onirico che profuma di travi di legno e tronchi bagnati dal mare. Tutto inizia con una tempesta, quella che condurrà i naufraghi sopravvissuti su una terra incantata abitata da spiriti e ninfe. Su quella terra, che Serra trasforma in una piattaforma quadrata di legno grezzo, lo spettacolo prende forma; luci e ombre plasmano lo spazio scenico: lo espandono, lo riducono, lo enfatizzano, interagiscono con la partitura delle azioni fisiche degli attori, in continuo dialogo con le stesse; la dissolvenza di luce e corpo rimanda immediatamente al fade in/fade out cinematografico.

La storia vede come protagonista Prospero (Marco Sgrosso), duca di Milano, ingannato e spodestato da suo fratello Antonio (Valerio Pietrovita) e dal duca di Napoli, Alonso (Massimiliano Donato); in salvo grazie a Gonzalo (Bruno Stori), onesto e anziano consigliere, Prospero, esiliato sull’isola, trama per riportare sua figlia Miranda (Maria Irene Minelli) al posto che le spetta e vendicarsi del tradimento subito. Dotato di poteri magici, scatena una tempesta che fa naufragare Antonio, Alonso, Ferdinando, figlio di Alonso (Fabio Barone), Gonzalo, Sebastiano, fratello di Alonso (Paolo Madonna), Trìnculo (Massimiliano Poli) e Stefano (Vincenzo Del Prete) – il primo un buffone ubriacone, il secondo un cantiniere ubriaco, anche loro imbarcati – sull’isola. Tutti i personaggi, inclusi i due spiriti, Ariel (Chiara Michelini) e Calibano (Jared McNeill), vengono manovrati come marionette da Prospero, che solo alla fine libera sé stesso e tutti gli altri dal suo stesso giogo, in un processo trasformativo che lo condurrà al perdono.

Lo spettacolo è pieno, traboccante di elementi: teatro di parola, azioni fisiche e danzate, costumi e maschere, oggetti di scena, luci, suoni, scenografie. Un concentrato che talvolta risulta compresso, ingombrante; che forse chiede di essere alleggerito, scarnito perché se ne possa apprezzare l’essenza. Non mancano momenti di estrema bellezza, forse quelli più essenziali, scanditi da pause e silenzi, come il dialogo tra Ferdinando e Miranda, dove una semplice trave di legno fa da ponte alle emozioni: prima poggiata sul dorso di Ferdinando, la trave è un peso, una “croce”, una prova di resistenza per dimostrare l’onestà del suo sentimento; poi diventa una pedana inclinabile da scalare, su cui scivolare come nel gioco atletico di un bambino. La stessa trave cambia continuamente funzione e significato nel corso dello spettacolo: si fa albero, tavolo imbandito, materiale “povero”, ma “ricco” di sensi.


Tanti gli attori in scena e tutti bravissimi; spiccano le interpretazioni di Chiara Michelini, nelle vesti di Ariel e di Jared McNeill, Calibano: la prima governa la parola tanto quanto il corpo danzante, chiude lo spettacolo lasciandoci, con un sol fiato, sospesi; McNeill è pura energia che nasce dalla terra, sale nel corpo e si riverbera violentemente nella voce; ci arriva tutta fin dentro le ossa.


Nell’adattamento di Serra la scrittura scenica rispetta pedissequamente quella di Shakespeare; il testo è immacolato se non in quegli intermezzi comici fra Trìnculo, Stefano e Calibano, dove dialetti e inflessioni diverse si mescolano e sovrappongono in sketch comici che smorzano l’andamento dello spettacolo, conferendogli ritmicità e dinamismo. Di fatto una produzione esteticamente impeccabile, che tuttavia non ci dice niente di più di quello che già Shakespeare ha saputo raccontarci quattrocento anni fa. Serra resta nascosto dietro un’opera, che forse sarebbe stato interessante scandagliare con occhi contemporanei.

Ridestandomi dal torpore del sonno, del sogno cosa ne resta? Ricordi edulcoranti, ma “lontani dal mio spazio e dal mio tempo, che poco raccontano della mia breve vita”.

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