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23/05/2023 di Mariantonia Capriglione

SOME OTHER PLACE – DOVE TUTTO È POSSIBILE

Penombra.

Il pubblico entra in sala mentre sul palco, sdraiata sul fianco, una donna ha lo sguardo fisso sulla platea; non si può definire se guardi chi prende posto o se sia persa in un altrove.

La luce bagna il suo corpo mettendone in risalto i contorni, come se la figura fosse un disegno stilizzato. Risalta il busto: la pelle nuda si mescola con un minuto top bianco su cui, da un lato, pendono delle perline colorate che quasi brillano quando illuminate. Sembra una sirena.

La platea è avvolta da suoni di vario genere in audio immersivo, il suono è, cioè, dislocato nello spazio.

Inizia così S.O.P. – Some Other Place l’assolo di Sara Sguotti andato in scena domenica 16 aprile, presso il teatro Traetta di Bitonto, nella rassegna L’arte dello spettatore organizzata all’interno della nona edizione del Network Internazionale Danza Puglia sostenuta dal Comune e dal Teatro Pubblico Pugliese.

La Sguotti, performer e coreografa, collabora con varie realtà affermate nel settore danza. Il 2021 è un anno per lei florido, vince il premio RAT per la sua nuova produzione “It’s hard to be human” e viene selezionata per la NID nella sezione Open Studios proprio con S.O.P. – Some Other Place.

ph Enzo Rapezzi

Il lavoro nasce dalla cooperazione di tre artisti; la performer dialoga costantemente con Spartaco Cortesi che, live, compone il tappeto sonoro e con Mattia Bagnoli che si occupa del disegno luci.

Sia con la musica che con le luci si lavora in maniera improvvisativa, in base a quanto accade in scena. L’idea è quella di restituire il tempo che muta. Alcune volte gli elementi esterni vanno in conflitto con il movimento, altre lo accompagnano, altre ancora lo assorbono completamente quasi facendo sparire il corpo.

Possiamo fondamentalmente dividere la performance, faticosissima sia nei momenti dinamici che in quelli più lenti, in tre parti.

Nella prima, più lenta, la danzatrice cambia posizione esplorando la fissità. Luce fredda. Suoni di auto in movimento intervallati da un silenzio assordante. Sembra di essere tornati nelle nostre case, chiusi, durante la pandemia. Nasce proprio in quel momento, infatti, il lavoro. Lo dirà la stessa autrice nel dibattito che segue lo spettacolo.

Nella seconda parte, sicuramente più dinamica, la Sguotti ci porta in uno spazio tra l’irreale e il surreale, il suo corpo attraversa lo spazio, entra nel colore, diventa colore e “riverbera nello score musicale dal vivo”.

La terza parte ci riporta in un non luogo dove le immagini si sgretolano, si mischiano, si sovrappongono e dematerializzano come in un videogioco. Il movimento ci restituisce la sensazione di vedere immagini che, pian piano, diventano pixellate. Sembra quasi che, come succede in radio quando il segnale ne intercetta un altro, Super Mario irrompa in maniera prepotente nel gioco di Lara Croft.

All’improvviso tuona in teatro e poi si sente uno scroscio costante, persistente, le gocce sembra battano su larghe foglie; la sensazione è quella di essere catapultati, in un attimo, in uno spazio aperto, siamo sotto la pioggia pur rimanendo completamente asciutti, le gocce si materializzano sulla schiena imperlata di sudore della danzatrice. Pian piano lo spazio cambia ancora la sua forma.

Buio. Luce rossa che colora il pavimento scuro. Il corpo esile, slanciato, in silhouette, di cui la luce bagna solo una parte dei lineamenti, avanza, lentamente.

Torna nel qui e ora. Torna a guardare il pubblico, o forse no; probabilmente si perde in un suo altrove, nel suo altro spazio; oppure è lo stesso pubblico a portare la Sguotti, ognuno, nel suo altro spazio in cui ha immaginato di vivere l’esperienza.

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